giovedì 13 ottobre 2016

Quel “Café Society” tanto caro ad Allen… 














Amore, nevrosi e sguardo nostalgico verso la mitica Hollywood degli anni ‘30. Sono questi gli immancabili ingredienti del nuovo film di Woody Allen.
Sin dai titoli di testa (con il brano The Lady is a Tramp) riconosciamo subito la firma e l’inconfondibile stile del regista newyorkese: musica jazz, sfondo nero e caratteri bianchi. In questo film, come in quasi tutti i suoi lungometraggi lo spettatore può riconoscere le stesse tematiche, le stesse dinamiche sentimentali, le stesse suggestioni e atmosfere nostalgiche, la stessa passione per New York e per le famiglie ebraiche.
E’ dunque la colonna sonora che sin dal principio incornicia perfettamente a ritmo di swing tutti questi elementi filmici, il cui contrappunto conferisce quel sapore retrò alla pellicola, quell’atmosfera tipica degli anni d’oro di Hollywood.
Al centro della pellicola (47esima) del regista, vi è la storia di Bobby, giovane ebreo newyorkese (Jesse Eisenberg) il quale giunto nella celebre e divistica Hollywood si innamora di Vonnie (Kristen Stewart) segretaria nell’ufficio in cui lavora lo zio del ragazzo, Phil (Steve Carell) ricco e famoso agente di attori, personaggio che si rivelerà, sempre per mano del “destino” (se così si può chiamare) centrale nella relazione amorosa dei due giovani.
Dopo diverse vicissitudini e giochi d’ironia della sorte (veri e propri leitmotive delle pellicole alleniane) Bobby e Vonnie - in seguito ai loro rispettivi matrimoni e a una vita apparentemente soddisfacente - vivranno in uno stato di confusione, di “bipolarità”: nostalgia per un amore passato o voglia di guardare avanti? Entusiasmo per il nuovo o rimpianto?
 E’ proprio attorno a queste antinomie che si sviluppa Café Society, reso particolarmente fluido e piacevole dalla trama, che avvolge lo spettatore con le sue dinamiche di routine sentimentali; a dare un valore aggiunto al film è inoltre la fotografia di Vittorio Storaro, che con la sua luce calda e ammaliante (altra peculiarità alleniana, sia che si tratti di film in pellicola che in digitale, come in questo caso) conferisce quel tocco di retrò tanto caro al regista newyorkese. Sin dalle prime inquadrature ciò che si coglie infatti è questa maestosità del colore, che inonda le scene rendendole più intimiste e talvolta ironiche. Impeccabile e di grande arguzia è inoltre (come sempre) la sceneggiatura, carica di ironia (specie nei confronti della religione ebraica), dietro le cui battute di Bobby (alter ego del regista) sembra di sentire la voce di Allen.

Café Society
è insomma tutto questo, un amalgama di sentimenti: amore, paura, amarezza, gioia, sensi di colpa. E’ un film in cui come sempre il regista ci pone di fronte alle grandi questioni (sentimentali) della vita: accettare la nostra quotidianità così com’è, piena di problemi, di rimorsi e contraddizioni - ma pur sempre autentica e colta in tutta la sua dignità - oppure volerla priva di tutto questo ma in fondo non autentica?
 



                                                                                                                                         Lavinia Alberti