mercoledì 9 marzo 2016

Com'è cambiata la nostra relazione con l'arte?



Se è vero che nel corso di questi decenni la società è andata cambiando così vorticosamente negli usi e nei costumi, ciò è ancor più evidente nell’arte.
Ad essere mutata negli ultimi tempi è stata non solo la generazione dei più giovani, nativi digitali, e soprattutto la fascia dei ventenni e trentenni, ma anche quella dei cinquantenni e oltre.
Nell’era della multimedialità, dei “bombardamenti” informatici e televisivi di infima qualità, dell’immediata fruizione visiva e sonora, sembra si stia andando verso una società sempre più dinamica e sempre più “dipendente” dai mezzi tecnologici.

Oggi si sta assistendo a uno scenario abbastanza singolare: da un lato si crede infatti che tramite questi dispositivi mediatici (tablet, smarthphone, Ipad) ci si possa documentare su ogni tipo di argomento e avere ogni tipo di informazione, dall’altro non ci si rende conto che questo immediato soddisfacimento delle proprie curiosità non porta ad altro se non a un impigrimento del nostro spirito di ricerca; acquisendo dei dati nel momento in cui ci servono quelle determinate nozioni, si rischia infatti di non far sedimentare a sufficienza queste ultime.
Ciò che è ancora più allarmante è non soltanto l’uso che si fa di questi dispositivi (spesso e volentieri si prendono notizie da internet o in molti casi da fonti di dubbia origine), ma soprattutto l’abuso.






Il modo di ascoltare la musica e di vivere gli eventi ad essa connessi è strettamente legato allo sviluppo e all’impatto che i media hanno sulle nuove generazioni. Chiunque si sarà accorto che buona parte dei ragazzi (per non dire quasi tutti) in qualsiasi contesto si trovi – un cinema o un teatro - e con chiunque, sia perennemente connesso a dispositivi elettronici in cui è possibile ascoltare musica o guardare video.
Per fare un esempio, molti ragazzi per andare ad ascoltare il loro cantante preferito e per testimoniare la loro presenza non si limitano a seguire l’esecuzione, a goderne la magia e dunque l’aura che il musicista può trasmettere, ma preferiscono documentare quel momento con uno smartphone o una telecamera.






Oggi, nell’era delle app che incentivano
una fruizione immediata, del tutto e subito, si ascolta la musica su piattaforme digitali, in canali come ITunes, Youtube, Spotify, ci si scambia file musicali scaricati dal web, con il risultato di un danneggiamento del mercato discografico.
A proposito di app, tra le innovazioni recenti vi è quella della River Oaks Chamber Orchestra di Houston che ha lanciato Octava, un’applicazione da scaricare su smartphone e tablet per guidare gli spettatori all’ascolto della musica in diretta; essa consente (per quanto riguarda i concerti classici) di documentarsi in loco sul concerto, sul compositore, sulla composizione e persino di seguire l’andamento della partitura.
 A questo punto la domanda sorge spontanea: c’è davvero bisogno di tutto questo? E’ proprio necessario farne un uso così massiccio (per non dire sconsiderato in molti casi) e dunque vivere molti eventi della propria vita tramite il filtro di uno schermo o di una telecamera? Non si rischia di svilire la grandezza dell’evento e di serializzarlo?
Paradossalmente il fatto che negli ultimi decenni siano nati nuovi mezzi di fruizione musicale e siano diventati sempre più sofisticati oggetti come l’mp3, l’mp4, l’Ipod, l’Ipad, i tablet e gli smartphone, ha fatto sì che questi abbiano assunto una parvenza di “sacro”, quasi fossero dei gioielli da custodire da cui non ci si può separare.
Proprio perché viviamo in un’era “smartphonecentrica” almeno per quanto riguarda gli eventi culturali, dovremmo fare in modo da lasciare fuori i nostri dispositivi da quei momenti unici che solo l’arte ci può dare, proprio perché per definizione essa è una magia le cui emozioni non possono e non devono essere spezzate.


 Lavinia Alberti

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