giovedì 17 marzo 2016

La "Dipartita Finale" portata in scena dai tre grandi del teatro italiano


Dopo l’apprezzata edizione di Finale di Partita di Beckett del 2006, Franco Branciaroli firma questa volta un’opera il cui titolo è esattamente speculare: Dipartita Finale.

Si tratta di un nuovo testo legato al tema dell’assurdo, una messa in scena che vede protagonisti tre clochard, Pol, Pot e il Supino.
Giunti alla fine dei loro giorni, i tre - i cui ruoli sono magistralmente impersonati rispettivamente dai tre celebri attori italiani: Gianrico Tedeschi (96 anni), Ugo Pagliai (78) Maurizio Donadoni (59), si trovano alle prese con le “ultime questioni” cui li costringe Totò - la morte - interpretata dallo stesso regista.
I barboni, accampati in una baracca sulle rive del Tevere, immaginano di rifugiarsi dall’imminente catastrofe della fine del mondo. Pol e Pot consapevoli della fine, l’attendono e la desiderano con timore; il Supino, invece, si crede eterno e può ancora permettersi di filosofeggiare e riflettere sul senso della sua esistenza e fare progetti per il futuro. 



L’amara ironia che attraversa questa storia la rende “lunare”, rappresentativa di una umanità povera di valori – condizione diffusa dei nostri tempi – attaccata alla misera speranza.

Dalla necessità che li costringe a vivere insieme, perseguita con strumenti irresistibilmente divertenti, emerge proprio la speranza, vera forza dell’uomo, che riserverà ai nostri clochard un finale a sorpresa.

La commedia, prodotta dal CTB Centro Teatrale Bresciano e dal Teatro de Gli Incamminati, sarà in scena al Teatro Biondo di Palermo fino al 24 marzo. Si tratta di un’opera che è senz’ombra di dubbio una vera e propria prova d’attore, i cui dialoghi e le cui battute fanno riflettere lo spettatore sul senso del tempo e della vita; essa vuole dunque essere più in generale una meditazione sulla mancanza di religione e sulla scomparsa di Dio, soppiantato qui dall’avanzare della scienza.

Siamo di fronte dunque a una commedia esplicitamente beckettiana, e per certi versi anche bergmaniana, proprio per la dicotomia vita-morte, ateismo-religione, in cui i paradossi e le visioni stralunate sono all’ordine del giorno.

Di bergmaniano c’è inoltre la personificazione della morte, che vede un Branciaroli avvolto dal nero. Che sia una storia in cui si tocca con mano la totale sfiducia nella fede lo confermano le parole del regista sono una conferma:



«Ci si difende dall’angoscia da sempre. L’angoscia è la mancata perfezione della vita. Affidarsi a Dio, venirne uccisi per salvarsi, addirittura ucciderlo per questo: finora. È morto, adesso, per chi lo percepisce davvero. Non morto per noi, non più; scomparso. I più lo ignorano nel profondo perché indifferenti. Con Lui tutto ciò che è assoluto valore è scomparso. Però l’angoscia resta e cresce: vieppiù. La realtà è senza ideale, la natura senza luce. Ebbene, l’opera d’arte (sperando che sia arte) deve essere capace, oggi, di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del mondo che è il trovarsi privi di Dio; e naturalmente la disperazione che ne consegue. […] Ci si difende dall’angoscia cercando la forza più potente: il sapere umano, o meglio, la “tecnica” che ne è conseguenza. Si potrà diventare anche immortali. Tutti i limiti saranno valicati. Immortale non è eterno; qualcuno tenterà di lasciare aperta la porta al divino, al passato di una cultura immensa da cui non si può prendere un definitivo congedo».




Lavinia Alberti

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