Dopo La grande bellezza (2013), film col quale Sorrentino si è portato a
casa un Oscar, questa volta il regista napoletano ha scelto di portare sul
grande schermo un film diverso ma che per certi aspetti lo può ricordare, Youth.
Passando dalle terrazze romane
del precedente film agli ambienti alpini svizzeri, questa volta il regista sceglie di trattare un tema più “scomodo” e di
difficile trattazione, poiché il nuovo film tratta della vecchiaia e del tempo
che passa. In realtà non c’è solo questo ma molto altro. Sì, perché il regista
tratta temi per certi aspetti speculari: la vecchiaia e la giovinezza, l’amore
e la morte, l’apatia e il desiderio, il piacere e la sofferenza. Il tema
direttamente correlato ad essi, o meglio, il filo sottile che lega tutti questi
è lo scorrere del tempo, tema caro al regista, che lui stesso ha definito quasi
un’ossessione; a tal proposito ha detto infatti che esso «E’ l’unico soggetto possibile, l’unica cosa
che ci interessa veramente, quanto ne passa e quanto ce ne rimane. Ma a
qualsiasi età se si riesce a mantenere uno sguardo sul futuro si può essere
giovani. Per questo è un film molto ottimista». Sorrentino ci mostra diverse sfaccettature e declinazioni
non solo della sofferenza, ma anche e soprattutto della giovinezza: c’è quella della
figlia del protagonista, psicologicamente distrutta perché appena lasciata dal
marito, quella idealizzata di Miss Universo, quella spaesata che esprime un
giovane attore, infine quella rimpianta da parte dei due amici.
Protagonisti del film sono Fred e
Mick, due amici di vecchia data, rispettivamente un musicista e un regista che
ormai ottantenni decidono di passare un breve periodo della loro vita in un
lussuoso hotel ai piedi delle Alpi. Entrambi affermati nel loro campo si
raccontano le proprie paure e ansie ma anche i propri desideri e progetti,
soprattutto il regista, che annuncia a Fred l’idea di girare il suo prossimo
film.
Il film inizia in medias res,
descrivendo le varie altre attività che avvengono all’interno dell’hotel; le
immagini iniziali coinvolgono sinesteticamente lo spettatore, come in un sogno,
tanto che non ci si accorge quasi dell’inizio.
Di certo non è nuova neanche l’idea di
ambientare l’intero film in un hotel: già Resnais in L’anno
scorso a Marienbad aveva ambientato il proprio film in un lussuoso e asettico
hotel, Kubrick aveva fatto altrettanto in Shining,
e ancora Fellini in Otto e mezzo, il
cui riferimento in questo caso è molto esplicito (proprio per le scene
ambientate nelle terme, per l’idea del regista che non riesce a girare il suo
film, e le atmosfere festive). Un altro modello di riferimento, anche se di non
immediata associazione, sembra essere Bergman che ne Il posto delle fragole, benché in maniera più spartana sia dal
punto di vista della scenografia che da quello musicale, aveva affrontato il
tema della vecchiaia e del tempo che passa.
La figura di Fred, magistralmente
interpretata da Michael Cane, è ben resa; soprattutto lo sono le intensioni
psicologiche ed emotive, il modo in cui caratterizza i suoi stati d’animo:
apatia, rassegnazione all’inizio, ma anche fiducia e amore per la vita in un
secondo momento. Il suo è un personaggio molto profondo: in preda ai pensieri e
ai continui tormenti, sembra quasi isolarsi in un mondo fuori dalla realtà in
cui non gli manca nulla apparentemente ma in realtà percepisce un vuoto
interiore, di senso; all’apparenza sembra sia solo un po’ apatico, come viene
definito più volte dalla figlia che lo accusa continuamente di essere stato
sempre assente dalla sua famiglia pensando solo e soltanto al suo mondo: la
musica. In realtà egli, benché abbia un amico, vive perennemente proiettato
all’indietro, ricordando la moglie che ha lasciato in lui un vuoto incolmabile.
Nel corso del film, sembra quasi
che il protagonista non viva più il presente ma che rimanga ancorato a un
passato che non ritornerà mai più. A conferma di ciò vi è il fatto che i
dialoghi con l’amico-regista e i suoi stessi pensieri non sembrano mai
riferirsi alla contemporaneità, ma solo al passato.
Se la prima parte può risultare
un po’ lenta e coinvolgere poco lo spettatore (almeno a una visione
superficiale e poco attenta), la seconda sembra invece recuperare un po’
l’attenzione di quest’ultimo. Nel corso del film un ruolo importante che non va
di certo sottovalutato è affidato alla colonna sonora, che contribuisce a far comprendere
meglio il messaggio filmico e a coinvolgere emotivamente il fruitore.
Per Sorrentino quello del commento
musicale è un ruolo importantissimo, e per questo diviene cifra costante del
suo cinema; è un elemento imprescindibile e ineludibile senza il quale verrebbe
meno il significato, o quasi, dell’intera opera. Non a caso anche nel
precedente film la musica aveva svolto un ruolo fondamentale; se tuttavia ne La
Grande bellezza essa aveva la
funzione di rendere meglio la decadenza della società romana, in questo caso,
specie nella parte finale, essa assume una funzione più intimistica: far
comprendere i diversi stati d’animo che il musicista vive.
Con Youth Sorrentino vuole certo dirci che nonostante il tempo che
passa e la vecchiaia che incombe, si può sempre ricominciare a vivere, cambiare
prospettiva e approccio di fronte a ciò che ci circonda. Le parole del regista a
questo proposito sono illuminanti: «è un film molto personale, intimo, scritto e
pensato in poco tempo. Il mio messaggio è semplice: con il passato non si è
liberi perché è andato, con il presente lo si è poco, ma il futuro, anche se
breve, è la più grande prospettiva di libertà che abbiamo». In altre
parole ciò che vuole dire è che solo avendo sempre occhi nuovi, curiosità verso
ciò che ci circonda saremo sempre giovani.
Lavinia Alberti
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