Amore,
nevrosi e sguardo
nostalgico verso la mitica Hollywood degli anni ‘30. Sono questi gli
immancabili ingredienti del nuovo film di Woody Allen.
Sin dai titoli di testa
(con il brano The
Lady is a Tramp) riconosciamo subito la firma e l’inconfondibile
stile del regista newyorkese: musica jazz, sfondo nero e caratteri bianchi. In
questo film, come in quasi tutti i suoi lungometraggi lo spettatore può
riconoscere le stesse tematiche, le stesse dinamiche sentimentali, le stesse
suggestioni e atmosfere nostalgiche, la stessa passione per New York e per le
famiglie ebraiche.
E’ dunque la colonna
sonora che sin dal principio incornicia perfettamente a ritmo di swing tutti
questi elementi filmici, il cui contrappunto conferisce quel sapore retrò alla
pellicola, quell’atmosfera tipica degli anni d’oro di Hollywood.
Al centro della pellicola
(47esima) del regista, vi è la storia di Bobby, giovane ebreo newyorkese (Jesse
Eisenberg) il quale giunto nella celebre e divistica Hollywood si innamora di
Vonnie (Kristen Stewart) segretaria nell’ufficio in cui lavora lo zio del
ragazzo, Phil (Steve Carell) ricco e famoso agente di attori, personaggio che
si rivelerà, sempre per mano del “destino” (se così si può chiamare) centrale
nella relazione amorosa dei due giovani.
Dopo diverse vicissitudini e giochi d’ironia della sorte (veri e propri leitmotive delle pellicole alleniane) Bobby e Vonnie - in seguito ai
loro rispettivi matrimoni e a una vita apparentemente soddisfacente - vivranno
in uno stato di confusione, di “bipolarità”: nostalgia per un amore passato o
voglia di guardare avanti? Entusiasmo per il nuovo o rimpianto?
E’ proprio attorno a queste antinomie che si
sviluppa Café Society, reso
particolarmente fluido e piacevole dalla trama, che avvolge lo spettatore con
le sue dinamiche di routine sentimentali; a dare un valore aggiunto al film è
inoltre la fotografia di Vittorio
Storaro, che con la sua luce calda e ammaliante (altra peculiarità
alleniana, sia che si tratti di film in pellicola che in digitale, come in
questo caso) conferisce quel tocco di
retrò tanto caro al regista newyorkese. Sin dalle prime inquadrature ciò
che si coglie infatti è questa maestosità
del colore, che inonda le scene rendendole più intimiste e talvolta
ironiche. Impeccabile e di grande arguzia è inoltre (come sempre) la
sceneggiatura, carica di ironia (specie nei confronti della religione ebraica),
dietro le cui battute di Bobby (alter ego del regista) sembra di sentire la
voce di Allen.
Café Society è insomma tutto questo, un amalgama di sentimenti: amore, paura, amarezza, gioia, sensi di colpa. E’ un film in cui come sempre il regista ci pone di fronte alle grandi questioni (sentimentali) della vita: accettare la nostra quotidianità così com’è, piena di problemi, di rimorsi e contraddizioni - ma pur sempre autentica e colta in tutta la sua dignità - oppure volerla priva di tutto questo ma in fondo non autentica?
Lavinia Alberti
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