Dopo
l’apprezzata edizione di Finale di
Partita di Beckett del 2006, Franco
Branciaroli firma questa volta un’opera il cui titolo è esattamente
speculare: Dipartita Finale.
Si
tratta di un nuovo testo legato al tema
dell’assurdo, una messa in scena che vede protagonisti tre clochard, Pol,
Pot e il Supino.
Giunti
alla fine dei loro giorni, i tre - i cui ruoli sono magistralmente impersonati
rispettivamente dai tre celebri attori italiani: Gianrico Tedeschi (96 anni), Ugo
Pagliai (78) Maurizio Donadoni (59), si trovano alle prese con le “ultime questioni” cui li costringe Totò - la morte - interpretata dallo stesso regista.
I
barboni, accampati in una baracca sulle rive del Tevere, immaginano di
rifugiarsi dall’imminente catastrofe della fine del mondo. Pol e Pot
consapevoli della fine, l’attendono e la desiderano con timore; il Supino,
invece, si crede eterno e può ancora permettersi di filosofeggiare e riflettere
sul senso della sua esistenza e fare progetti per il futuro.
L’amara
ironia che attraversa questa storia la rende “lunare”, rappresentativa di una
umanità povera di valori – condizione diffusa dei nostri tempi – attaccata alla
misera speranza.
Dalla
necessità che li costringe a vivere insieme, perseguita con strumenti
irresistibilmente divertenti, emerge proprio la speranza, vera forza dell’uomo,
che riserverà ai nostri clochard un finale a sorpresa.
La commedia, prodotta dal CTB Centro Teatrale Bresciano e dal Teatro de Gli
Incamminati, sarà in scena al Teatro
Biondo di Palermo fino al 24 marzo.
Si tratta di un’opera che è senz’ombra di dubbio una vera e propria prova
d’attore, i cui dialoghi e le cui battute fanno riflettere lo spettatore sul
senso del tempo e della vita; essa vuole dunque essere più in generale una
meditazione sulla mancanza di religione e sulla scomparsa di Dio, soppiantato
qui dall’avanzare della scienza.
Siamo di fronte dunque a una commedia esplicitamente beckettiana, e per certi versi anche bergmaniana, proprio per la dicotomia
vita-morte, ateismo-religione, in cui i paradossi e le visioni stralunate sono
all’ordine del giorno.
Di bergmaniano c’è inoltre la
personificazione della morte, che vede un Branciaroli avvolto dal nero. Che sia
una storia in cui si tocca con mano la totale sfiducia nella fede lo confermano
le parole del regista sono una conferma:
«Ci si difende dall’angoscia da sempre. L’angoscia è la mancata perfezione della vita. Affidarsi a Dio, venirne uccisi per salvarsi, addirittura ucciderlo per questo: finora. È morto, adesso, per chi lo percepisce davvero. Non morto per noi, non più; scomparso. I più lo ignorano nel profondo perché indifferenti. Con Lui tutto ciò che è assoluto valore è scomparso. Però l’angoscia resta e cresce: vieppiù. La realtà è senza ideale, la natura senza luce. Ebbene, l’opera d’arte (sperando che sia arte) deve essere capace, oggi, di suscitare in qualcuno la convinzione che in essa sia presente quel senso ultimo del mondo che è il trovarsi privi di Dio; e naturalmente la disperazione che ne consegue. […] Ci si difende dall’angoscia cercando la forza più potente: il sapere umano, o meglio, la “tecnica” che ne è conseguenza. Si potrà diventare anche immortali. Tutti i limiti saranno valicati. Immortale non è eterno; qualcuno tenterà di lasciare aperta la porta al divino, al passato di una cultura immensa da cui non si può prendere un definitivo congedo».
Lavinia Alberti
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